Roma, 2001
“Andrea, tu da oggi mi fai cinquecento realizzati al giorno, hai capito?”
Le parole di Roberto Castellano risuonano perentorie all’interno della piccola palestra. Nella Capitale italiana il club della Stella Azzurra non è una squadra di pallacanestro: è un’istituzione. Ha raggiunto il suo massimo splendore quando, in Italia, si stavano affacciando i primi americani veramente forti (tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta), ha giocato ventidue stagioni di massima serie, e fino a quel momento è famosa per aver lanciato nel gotha della pallacanestro nazionale un signore all’apparenza burbero e dalle idee tecniche innovative: si chiama Valerio Bianchini, e sarà il primo allenatore a regalare uno Scudetto alla principale squadra romana, che all’epoca si chiamava Banco Roma.
La Stella Azzurra milita adesso in Serie B2, un luogo magico nel quale si creano vere e proprie leggende, ed è da qui, da questa piccola palestra nella periferia romana che ha inizio la storia di un ragazzo che, vi piaccia o meno, passerà alla storia della nostra palla a spicchi. L’Andrea al quale facevamo riferimento nella nostra citazione iniziale è Andrea Bargnani, figlio di Luisella Balducci, che era stata giocatrice prima di dedicarsi alla carriera e alla famiglia, e quando entra in quel luogo tanto prestigioso è soltanto un ragazzino nettamente più alto rispetto alla media dei suoi compagni, ma altrettanto timido. La faccia è quella spaesata di chi deve inserirsi in un ambiente a lui completamente estraneo, e quando sei un tipo riservato è doppiamente difficile rompere le barriere iniziali. Andrea ha sedici anni, eppure i dirigenti della squadra decidono di aggregarlo immediatamente alla categoria dei “grandi”. In lui hanno visto qualcosa oltre quel muro di ghiaccio impenetrabile che sono i suoi occhi. Trovo che sia molto difficile leggere le intenzioni e i pensieri di chi ha gli occhi chiari: è una mia opinione personale, ma forse è quello che devono aver pensato anche i tecnici della Stella Azzurra quando osservavano Bargnani dominare nelle categorie giovanili, non solo per la spropositata prestanza fisica rispetto ai pari età, ma anche per le innate doti tecniche e l’intelligenza nel capire il gioco: “Andrea, perché non sorridi? Perché non ti incazzi? Dacci un segno!” E invece no. Tutto regolare, un ventello dopo l’altro, un passo in più verso i vertici della pallacanestro italiana.
Coach Roberto Castellano è uno che ne ha viste tante. E’ stato un giocatore per la Virtus Roma fino ad inizio anni ’90, e poi è diventato un allenatore a livello giovanile. Ha un faccione pieno, i capelli bianchi, assomiglia a un allenatore da film sportivo americano, di quelli che i primi cinque minuti sono i peggiori stronzi sulla faccia della Terra, ma poi capisci che lo fanno per il bene della squadra e per insegnare ai propri ragazzi cosa voglia dire essere uomini prima che giocatori. Di solito la sceneggiatura prevede per loro una o più frasi ad effetto motivazionale, ma visto che questa è la realtà non abbiamo una citazione di questo tipo. La prima cosa che Castellano pensa quando vede Bargnani in palestra è che ci sarà da lavorare tanto per renderlo in grado di scendere in campo a livello senior. Il ragazzo è dotato, è alto e lungo, ma manca di massa muscolare: come farà ad affrontare gli arcigni difensori della B2? Notoriamente i giovani nel basket italiano sono maltrattati, sia fuori sia dentro al campo: non è nonnismo, è quasi un rito di iniziazione al quale ci si deve sottoporre per riuscire ad essere accettati dal microcosmo basket. Questo Bargnani lo sa, ma al suo livello attuale non ha una sola chance di poter competere a livello fisico con gente di 30-35 anni che conosce ogni trucco per spazzarti via e dominarti. Ed è proprio per questo motivo che al coach viene un’idea: “Andrea, tu diventerai un tiratore. L’ex giocatore della Virtus Roma ha questa visione, e un po’ per spirito di adattamento, un po’ per reali convinzioni tecniche decide di lavorare instancabilmente col nuovo arrivato.
La periferia romana, ormai abbiamo imparato a comprenderlo, non è un posto facile per vivere. Andrea non viene da uno di questi quartieri, è un giovane di buona famiglia, non ha storie travagliate alle spalle e ha vissuto piuttosto tranquillamente la propria infanzia. Questo non significa però che non abbia fatto sacrifici per raggiungere i propri obiettivi, ma soprattutto per giocare ancora un po’ di più allo sport che tanto lo appassiona. Quando i compagni di scuola sono a un compleanno, all’oratorio o iniziano ad uscire, a organizzarsi in compagnie per dare un senso alla nuova stratificazione sociale tra le nuove generazioni, Andrea è ad allenarsi, individualmente o con la squadra, in una qualche palestra, e probabilmente sta pensando al turno di campionato che deve ancora venire. E che sarebbe meglio vincere.
Roberto e Andrea diventano una cosa sola. Tra di loro c’è un feeling particolare, perché il coach ha capito qualcosa che tutti gli altri non sono riusciti ancora a vedere in lui. Lavorano insieme, ma prima di tutto viene messo in chiaro che senza almeno cinquecento tiri da tre realizzati al giorno il sedicenne romano non avrebbe potuto guadagnare la via delle docce. Castellano gli reimposta la meccanica, lo corregge sulla posizione delle braccia, delle gambe e dei gomiti. Tirare a canestro, lo dicono in molti, è come un flusso, una cascata che viaggia tutta insieme all’unisono, al solo e unico scopo di sentire il nylon scuotersi. Non riesco ad immaginare la forza di volontà che ci voglia per sopportare intere sessioni di tiro, interminabili ore passate ad eseguire soltanto un movimento, a ripeterlo fino a quando non è interiorizzato e diventa automatico. Ancor di più faccio fatica ad immaginarlo all’età di sedici anni. Che il coach avesse già pronosticato un basket moderno in cui la specializzazione sarebbe stata più importante della completezza? Sicuramente lavorare su un ragazzo ancora in fase di sviluppo deve aver reso le cose minimamente più facili, perché Andrea si convince in questo momento di avere davanti un avvenire luminoso. Allo stesso tempo però aumenta la pressione su di lui, seppur in ambito locale.
Andrea Bargnani è il primo prodotto del basket romano dai tempi di Davide Ancilotto (che pure romano non era). Essere una grande speranza del basket, così come del calcio, essere romano e giocare in una squadra della propria città, seppure a livelli mediatici e tecnici piuttosto bassi, non è facile. Vero: di basket le infiammate radio capitoline parlano raramente, ma le voci girano, l’ambiente degli appassionati di pallacanestro romani è piuttosto florido. Bargnani è pur sempre un sedicenne che gioca in prima squadra, fatto che può essere giustificato soltanto nel caso di un fenomeno che passa una volta ogni dieci anni, e tutti non aspettano altro che sbagli una partita o anche una semplice giocata per poter dire che i dirigenti e gli osservatori della Stella Azzurra si sbagliavano. La sua carriera è da sempre caratterizzata dal dover necessariamente fare qualcosa in più, un peso non sempre sostenibile.
Datome: "Andrea ha avuto una storia diversa dalla mia in America, ha fatto la sua scelta, è un ragazzo super intelligente e ambizioso a cui voglio un mondo di bene".
Messina:"Andrea vuole dimostrare a se stesso che può farcela. Sarei sorpreso se mollasse e dicesse 'torno a casa'...”
Poco più avanti inoltre, coach Messina si espone reputando Bargnani un ottimo elemento della triangle offense: “non è un giocatore da post basso, non è il suo modo di giocare. Io penso che Andrea sia un ottimo giocatore per la triangle. Ha un'ottima mano, non è un cattivo passatore e ha una buona visione di gioco."
Blatt:Bargnani and Cavaliers coach David Blatt won a championship together in 2006 for Benetton Treviso in Italy. Blatt said he's "not really surprised'' that Bargnani has had his struggles, and that injuries more than his play "derailed'' his career.
"I think therein lies the difficulties,'' Blatt said Sunday. "He's a particular kind of player. He's a very, very unusual 7-foot player. But when used right or when playing in the same system, he's very, very effective. I'd just like to see him healthy because I know he's got a great deal to offer any NBA team.'
Blatt was asked to name the best player he ever coached overseas and responded with five names: Anthony Parker, Andrei Kirilenko, Nikola Vujcic, Sarunas Jasikevicius and Andrea Bargnani.
Blatt said all of those players, plus LeBron James, have a “willingness to take responsibility and a sense of purpose in everything they did on and off the court.'
FORZA MAGO!